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Quattro musei in quattro giorni. A Roma

Roma caput mundi o meglio caput culturae. Quattro giorni non bastano, certo. Ma me li son fatti bastare. Fra viaggi interminabili sui mezzi pubblici, cene tra amici, il match della nazionale all’Olimpico contro l’Uruguay e, soprattutto, tante mostre e appuntamenti culturali. Per il piacere di viaggiare, per il gusto di vedere un po’ di mondo. Il tutto in una Roma con le orecchie tese alle notizie provenienti dal Quirinale e dal Parlamento.

Primo appuntamento quello che mi ha spinto a muovermi in anticipo verso Roma: la mostra sul realismo socialista al Palazzo delle Esposizioni. Un tuffo nella storia, dall’esaltazione della vittoria dell’ideologia comunista, al controllo sull’arte e sulla cultura dello stalinismo (gli artisti devono essere allineati, le loro opere devono riflettere la realtà della creazione di una società migliore, più equa e quindi più felice), alla glasnost. Quando, destrutturando l’immagine sempre così limpida e perfetta negli anni della guerra fredda riappare in mostra tutta la solitudine dell’uomo che non conta nulla nei confronti dello Stato totalizzante e al posto del sol dell’avvenire può al massimo spalancare le finestre e guardare una notte stellata. Quadri belli, allestimento perfetto, catalogo così così. Merchandising (purtroppo) inesistente.

Boris Kustodiev, Il Bolscevico, 1920

Al piano superiore è interessante anche l’esposizione “Homo Sapiens”. Che racconta, scientificamente, come non esistano razze diverse nell’umanità e che in ogni ora del giorno e della notte facciamo uso comune di strumenti, cibo, vestiti che appartengono a culture diverse dalla nostra. Senza pensarci su neanche un attimo quando invece critichiamo l’eccessiva immigrazione, quella che “ci porta via il lavoro”. Quella che “ci porta le malattie”. Lì ho imparato che la cravatta l’hanno inventata i croati nel Settecento, e il nome lo prende proprio dal termine “croata”.

Al Vittoriano il protagonista è invece Piet Mondrian. Quello, per intendersi, che ha ispirato il design delle confezioni dei prodotti L’Oreal. L’esposizione (che unisce dipinti suoi e del De Stijl olandese) va dal periodo dell’impressionismo e della Scuola dell’Aja fino al neoplasticismo e al De Stijl. Un percorso tutto interiore e ben spiegato, dalla realtà al simbolo, dalla complessità ai colori primari non proprio completissimo ma di sicuro impatto. Di certo non particolarmente emozionante, ma di sicuro interesse culturale.

Un salto lo faccio anche nell’esposizione aperta lì accanto. Ci sono le foto e i cimeli dello sbarco degli americani sulle coste laziali alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Battaglia di Anzio compresa. Bello soprattutto il documentario conclusivo con le testimonianze degli abitanti della zona. E i racconti dell’arrivo dei soldati che portavano in regalo cioccolato e sigarette. Come se fosse una festa. Era la guerra civile.

Il MaXXI, museo nazionale delle arti del XXI secolo, è proprio una sorpresa. Strano trovare una struttura così al quartiere Flaminio. Un po’ relegata lì, fra una chiesa e un condominio, ma affascinante nell’architettura e nei contenuti. Se poi la mostra principlae è “Indian Highway”, una rassegna dell’India contemporanea tra tradizione e modernità il risultato è garantito. Stupisce di vedere come in una metropoli come Mumbai i problemi siano gli stessi delle nostre piccole città, come una nuova pista per l’aeroporto. Che non si fa perché occorrerebbe buttare giù le baracche dei poveracci e ricollocarli altrove. Magari in residenze più degne. Ma in questo caso la modernità e il progresso non vale. Colpisce il documentario della protesta delle donne contro le violenze dell’esercito nei confronti del genere femminile. Con passionarie indù che si denudano davanti alle caserme per dire no agli stupri e alle prevaricazioni. Inquieta, infine, la differenza fra le grandi opere futuristiche delle grandi città e la lentezza e l’obsolescenza della burocrazia: dove la carta non è ancora stata soppiantata dai computer e i ventilatori cigolano appesi alle pareti come in un romanzo di Chandler.

Ultima tappa alla Centrale Montemartini. Alla Garbatella il connubio tra archeologia industriale e arte romana repubblicana e imperiale. Statue e mosaici nel bel mezzo di motori e caldaie di fine ottocento e un’open space dove la contraddizione diventa ricchezza, dove il bianco del marmo e il nero del carbone diventano altro rispetto alla solita rappresentazione paludata fra tappeti e stucchi, in enormi sale anodine, senza storia e senza relazione. Bello. Salvo il percorso per arrivarci, nonostante l’effetto dell’ex gasometro in lontananza che fa molto Ferzan Ozpetek.